Che il passato sia la chiave del futuro è un concetto spesso riproposto, formulato in vari modi. Le scelte del passato ci hanno portato al presente e le condizioni attuali sono chiaramente le basi da cui ci muoviamo verso gli scenari futuri, quindi c’è del vero. Ma in che modo, concretamente, la conoscenza del passato può servire a immaginare e quindi a progettare questi scenari?
La conoscenza storica sembra a molti fine a se stessa, un’elevazione culturale, un modo di comprendere il passato, ma accademico, nel senso di privo di applicazioni concrete immediate ed evidenti. Eppure, il padre dell’attuale impostazione della geografia storica, Alan R. H. Baker, già nell’ormai lontano 1972, scriveva che «it is, paradoxically, the future that matters most in historical geography»: paradossalmente ciò che più conta nello studio della geografia storica è il futuro. Questa disciplina studia i processi che hanno portato un determinato territorio, attraverso la dimensione temporale, cioè storica, allo stato che possiamo vedere oggi, analizzandone le strutture caratterizzanti, materiali, sociali, economiche.
Decisioni del passato, soluzioni adottate o scartate, congiunture economiche e sociali che hanno determinato scelte vanno analizzate e conosciute per capire l’esito attuale di una zona, di un territorio dove l’uomo ha vissuto. Questa analisi può portare a riconoscere le caratteristiche peculiari del luogo, anzi il suo “carattere”, quello che si può indicare come il genius loci.
Questo portato storico deve condurre ad un utilizzo e valorizzazione futura che sia rispettosa dello spirito del luogo oltre che sostenibile, cioè tenga conto dell’eredità paesaggistica e culturale da trasmettere alle nuove generazioni. Così un fiume che aveva dato negli ultimi secoli problemi di esondazione, mediante un attento studio del passato – oltre ovviamente a quello dello stato attuale – ha trovato soluzioni che hanno permesso, inoltre, la valorizzazione paesaggistica e turistica di alcuni tratti del corso particolarmente significativi.
Uno dei punti focali della disciplina nella sua applicazione prospettica è la collaborazione tra professionisti diversi, che vanno necessariamente coinvolti nella fase di pianificazione dai competenti organi di rappresentanza politica. Quindi oltre al geografo storico, che si potrà avvalere di cartografie d’epoca per ricostruire le “biografie” dei territori analizzati e che potrebbe utilmente fungere da supervisore, di volta in volta e a seconda delle tematiche evidenziate dal territorio, geologi, sociologi, urbanisti, esperti forestali, economisti, legali e ovviamente futuristi. Questo chiaramente ove vi sia lungimiranza – saper guardare lontano, capacità “futurista” non comune nella classe politica odierna – e un investimento adeguato nello sviluppo di un territorio.
In Italia si ritiene che vi siano molte zone che potrebbero essere tema di simili analisi progettuali e bisogna avere il coraggio di investire in questo. Ma anche per le iniziative di piccole comunità, e riconoscendo lo sviluppo turistico non di massa come uno sviluppo virtuoso e capace di produrre reddito, la semplice analisi delle vecchie mappe dei dintorni di un piccolo villaggio appenninico, dove esiste da poco un agriturismo, ha permesso di riscoprire e riattivare antichi sentieri rurali che compongono una rete di vie alternative che consentono la scoperta di paesaggi inaspettati, contribuendo al restauro dei percorsi, al mantenimento della memoria e dei microtoponimi, al controllo del territorio e in definitiva alla creazione di reddito che contribuisce a contrastare lo spopolamento della montagna.
Pensare in “modalità futuro” non ha una scala, è innanzitutto una forma mentis prima ancora che una metodologia scientifica.